Saluto tutti i presenti, le autorità e coloro che hanno voluto ridarmi fiducia, chiamandomi ad intervenire pubblicamente anche in questa occasione così importante. Solo qualche mese fa ci siamo riuniti sotto questo stesso monumento per posare una corona e poi sotto la lapide nel cortile del castello che ricorda i Quattro Martiri. In quell’occasione io ho scelto di parlare della “memoria”, concetto che vorrei richiamare anche oggi.
Memoria intesa come “conoscenza della realtà storica”.
In questo caso, la conoscenza di quello che ha portato alla caduta del fascismo e la riconoscenza verso chi ha combattuto per arrivarci.
Se siamo a conoscenza dei fatti non possiamo mettere sullo stesso piano i protagonisti di quel periodo storico, perché gli ideali, per cui i partigiani hanno combattuto, sono quelli che hanno condotto l’Italia alla libertà e alla democrazia.
Libertà e democrazia di cui noi, oggi, godiamo.
Senza la lotta per la Liberazione non ci sarebbe la Repubblica e neanche la Costituzione, grazie alla quale tutti noi possiamo godere di diritti fondamentali, come la libertà di pensiero, di parola e di associazione.
Grazie alla Costituzione, forze politiche diverse si possono alternare alla guida del nostro paese e al governo delle amministrazioni locali e tutte secondo la volontà dei cittadini. Così è in uno stato democratico.
Ecco perché conoscere i fatti, ricordare la verità storica è una condizione fondamentale per parlare e per celebrare il 25 aprile.
Non c’è bisogno di nessun revisionismo: il 25 aprile è il simbolo della liberazione dal fascismo e dal nazismo, è l’esaltazione della vittoria della libertà e della democrazia sull’oppressione.
Ed è soprattutto l’occasione per ricordare coloro i quali hanno sacrificato anche la loro vita perché noi possiamo godere di tutto ciò. Tra questi vorrei ricordare, per la prima volta nella nostra città, Pietro Dolci, marosticense, operaio antifascista che fu barbaramente ucciso dai fascisti, nel luglio del 1943, in seguito ad uno sciopero allo stabilimento dell’Autobianchi a Desio, dove lavorava e dove una lapide riporta il suo nome come “Caduto per la libertà”.
Quel 25 aprile del 1945, alle 8 del mattino, la voce di Sandro Pertini, dai microfoni di Radio Milano Liberata, proclamò l’insurrezione generale in tutti i territori ancora occupati, ponendo le truppe dei nazifascisti di fronte al dilemma: “Arrendersi o perire!”.
Il proclama era stato emanato dal Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia e dal Corpo dei Volontari per la Libertà per invitare il popolo italiano all’insurrezione generale, evitando però un inutile bagno di sangue. Per coloro che avevano servito i tedeschi e sostenuto il fascismo restava una sola via di scampo: consegnare le armi e arrendersi al CLN (Comitato di Liberazione Nazionale).
Quello stesso giorno Milano venne liberata dai partigiani, pochi giorni prima dell’arrivo degli Alleati.
L’effettiva resa incondizionata delle forze tedesche in Italia e della Repubblica Sociale Italiana venne siglata pochi giorni dopo, a Caserta.
Era il 29 aprile 1945.
Terminava così il lungo e doloroso processo di liberazione del Paese con un costo elevatissimo di vittime militari e civili ed aveva inizio una nuova stagione di pace e di democrazia.
Ma quel 25 aprile del 1945,
di fatto, non fu l’ultima giornata di combattimenti tra forze nazifasciste, alleati e brigate partigiane. Purtroppo quel giorno non segnò la fine immediata delle ostilità. La ritirata tedesca lasciava dietro di sé saccheggi, distruzioni
e tante vittime partigiani e civili.
Tutta la provincia di Vicenza venne attraversata dall’esercito nazi-fascista in ritirata. Fatti terribili, vere e proprie stragi furono commesse anche nelle nostre zone: il 27 aprile a Treschè Conca, a Dueville, a Sandrigo, a Sarcedo, a Valdagno, il 28 a Noventa Vicentina, a Lonigo, a Monte Crocetta.
E molte altre efferatezze furono compiute qui, nel nostro territorio: a Crosara, a Marsan, a Valle San Floriano, a Fontanelle, Santa Caterina, a Pianezze, a Mason, a Mure, a Molvena, a Schiavon.
Il 29 aprile, a Marostica, dopo l’ingresso degli alleati, su proposta del Comitato di Liberazione Nazionale, il prefetto nominò sindaco Luigi Consolaro che si adoperò da subito per migliorare la situazione della nostra città, avviando i lavori di ripristino degli edifici e delle strade. Fu proprio durante un sopralluogo nella strada di Caribollo, 5 mesi dopo, il 15 settembre del 1945, che venne colpito da un’embolia cerebrale e morì poche ore dopo. Fu sostituito per un breve periodo dal vice sindaco Domenico Passuello.
Poi dal 22 novembre del 1945, divenne sindaco Gio.Batta Morello, sempre su proposta del CLN. Anche lui si adoperò per far fronte ai problemi del dopoguerra, alla disoccupazione e s’impegnò per il risanamento del territorio. Organizzò le prime elezioni a Marostica nel 1946, quando fu eletto sindaco Giovanni Volpato.
C’era molto da fare in quei primi anni di libertà. Proprio in un articolo del “Corriere della sera” di sabato scorso, 22 aprile, Federico Fubini ha affrontato questo tema, rendendo nota la corrispondenza scambiata, nel luglio del 1945, tra Paolo Baffi, che era stato nominato, dal governatore Luigi Einaudi, capo del Servizio Studi della Banca d’Italia (sappiamo che poi sarebbe diventato il governatore della stessa Banca), e Federico Caffè, economista, capo di gabinetto del ministero della Ricostruzione del governo Ferruccio Parri. I due si confrontavano sui danni lasciati al nostro paese dalla seconda guerra mondiale. La stima delle devastazioni si attestava sui tremila miliardi, ma era una prima analisi “frutto di un’impressione più che di una valutazione” perché c’era un margine di incertezza amplissimo. I due riportavano dei numeri, tra cui quattro milioni di case distrutte, e poi annotavano i danni sui mezzi di trasporto, sulle linee telefoniche e della luce che erano state divelte con danni di duecento miliardi di lire, pari a sette miliardi di euro di oggi.
Oltre al bilancio morale, civile e politico del fascismo, anche quello materiale era catastrofico.
Possiamo capire come anche i nostri amministratori locali si trovassero di fronte a problematiche enormi e come il ritorno alla normalità fosse ostacolato dalla distruzione che gravava anche su Marostica.
I documenti conservati presso il nostro Archivio Storico ci fanno comprendere meglio quanto fosse tragica la situazione.
Nella Relazione sulla situazione economica dell’esercizio del 1945 la Giunta comunale metteva in evidenza le difficoltà che aveva dovuto affrontare e definì quel periodo come “uno dei più critici che si siano registrati negli annuali amministrativi degli Enti Locali”.
Per fare un esempio, il 31 luglio del 1945 il sindaco Consolaro aveva richiesto degli accertamenti circa la condizione delle scuole per poter poi avvisare il Provveditore agli Studi in vista del riavvio delle lezioni. I plessi più danneggiati risultarono quelli di Vallonara, San Vito, Marsan, Crosara, Capitelli, Valle San Floriano. Quest’ultima scuola era stata occupata dalla Decima Mas dal 9 marzo al 20 aprile. Le maestre presentarono delle relazioni, in cui elencavano non solo i danni, ma anche le circostanze dei saccheggi e i furti perpetrati: i banchi, gli armadi e le cattedre perfino i calamai, erano stati distrutti, i vetri rotti, le radio rubate. E tra le righe si legge lo sconcerto di quelle insegnanti di fronte alla mancanza di rispetto del materiale e degli ambienti scolastici.
La prima Giunta Comunale verbalizzò di essere impegnata “a salvare il salvabile dalla eredità lasciatale dalla guerra, all’assistenza di coloro che per la liberazione ebbero a dare parecchio se stessi, e a quella in genere del ceto povero, come quello che più degli altri è venuto a risentire delle conseguenze della guerra”.
Così distribuirono viveri ed indumenti ai bisognosi, avviarono opere pubbliche per dar lavoro ai disoccupati, come la sistemazione di fabbricati comunali e dell’impianto di illuminazione pubblica.
Nonostante tutte queste difficoltà, dai documenti si evince un clima positivo, di collaborazione, di condivisione: promossero una sottoscrizione per i disoccupati poveri, che vide in prima linea la Banca Popolare di Marostica, raccolsero fondi per i disoccupati, tutti furono chiamati a partecipare: dai medici e gli infermieri dell’ospedale, agli insegnanti delle scuole, agli industriali, ai commercianti agli artigiani… fu organizzata, perfino, una lotteria indetta dal Comitato Comunale per l’Assistenza ai più bisognosi.
Certo bisognava affrontare problemi enormi, ma c’era fiducia nel futuro, la guerra era finita e c’era la libertà.
Finalmente si viveva in pace!
Erano state distrutte case, molte persone erano senza tetto e avevano trovato alloggio presso parenti ed amici. Erano state colpite anche le infrastrutture e, dove ancora esistenti, risultavano quasi impraticabili. Poi c’era l’assistenza ai profughi, bisognava affrontare le spese per le cure e l’assistenza ai rimpatriati, ai reduci di guerra e il livello di disoccupazione era molto alto.
Nelle “Lettere di condannati a morte della Resistenza europea” che rappresentano l’ultimo saluto di donne e uomini perseguitati, torturati e giustiziati da fascisti, nazisti e collaborazionisti durante la Seconda guerra mondiale, ritorna continuamente l’ideale di pace che presume una maggiore fratellanza tra gli uomini, uno spirito di solidarietà e di apertura, indipendentemente dalla provenienza sociale, dall’appartenenza politica, dalla fede religiosa.
Questi condannati erano operai, sacerdoti, intellettuali e contadini, comunisti, socialisti, cattolici, liberali… tutti animati dalla volontà di affermare le libertà civili, dalla necessità di ripristinare i diritti fondamentali, dall’attuazione di una maggiore giustizia sociale, ma l’ideale supremo era, per tutti loro, la pace.
Come afferma Norberto Bobbio lo spirito della Resistenza stava nella solidarietà tra i tre grandi ideali: la libertà, la giustizia sociale, la pace.
Ed è su questi tre principi che si fonda la nostra Costituzione:
l’ideale della libertà personale è affermato nell’articolo 13: “La libertà personale è inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’Autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge”.
L’ideale della giustizia lo troviamo nell’art. 3 “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
L’ideale di pace è riportato nell’articolo 11 “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.
Ma proprio in questo momento, in cui noi celebriamo la libertà e la pace, si sta combattendo una guerra crudele e violenta nel cuore della nostra Europa, e tutto sembra sempre più inconcepibile e insopportabile proprio perché siamo qui a ricordare e festeggiare una liberazione, la nostra, da un invasore.
Si può pensare: ma la storia non dovrebbe insegnare? Allora anche questo nostro ricordare è inutile?
E invece no, mai come oggi è importante, è necessario ricordare.
Commemorare il 25 aprile oggi ha un valore ancora più grande: non è solo il ricordo degli eventi accaduti 78 anni fa, ma
è affermare la democrazia sulla dittatura,
è affermare la libertà contro l’oppressione,
è affermare la pace contro la ferocia della guerra!